Genova e Genovesi cosmopoliti
Una premessa
Nell’affrontare questo argomento, ancor’oggi di estrema attualità ma nel suo contesto di vaste proporzioni, si è deciso, dopo che la ricerca dei dati, tramite una pluralità di fonti, ha messo in luce una quantità così abbondante degli stessi, di non procedere a una loro completa disamina, ma vista la mole di spunti messi in campo, si è preferito per il momento porre l’accento solo su alcuni argomenti e per ciascuno puntare l’attenzione su alcuni manufatti che possano in questo modo dare un’idea – anche se non esaustiva e oltremodo approssimativa ma veritiera – della pluralità delle esperienze e della capacità della città e dei suoi cittadini di assimilare in maniera compituta quanto – siano essi oggetti, usi, conoscenze o uomini – nel tempo è giunto da terre lontane o da queste terre è stato portato facendolo proprio e trasformandolo in un segno tangibile della tradizione. Parallelamente a questa esperienza non ne va dimenticata una seconda: l’accoglienza da parte dei Genovesi di genti diverse, per aspetto, usi, costumi, religione, senza remore e nel nome del progresso economico.
Vista la difficoltà, sopra accennata, di porre mano a una totale schedatura delle differenti esperienze via via documentate, si è ritenuto utile presentare un dossier in divenire, aggiornando nel tempo il materiale oggi presentato, ampliando man mano il quadro fin qui delineato.
Ancora una precisazione è necessaria per meglio comprendere il cosmopolitismo della città e dei suoi cittadini: fino all’Unità d’Italia sono ritenuti foresti tutti coloro che non appartengono al territorio del Comune di Genova prima e della Repubblica di Genova poi.
1. Uno sguardo alla storia
La stessa nascita di Genova, nel VII secolo a.C., non è altro che l’unione di quattro etnie – Greci massaglioti, Fenici, Etruschi, Liguri – che si incontrano presso l’insenatura del Mandraccio per i loro scambi commerciali, prima in maniera periodica, poi con l’impianto di un sito stabile da parte degli Etruschi.
Con la conquista romana nel II secolo a.C. tale vocazione non viene meno, anzi semmai è potenziata e agevolata proprio dall’appartenere a un grande impero.
I contatti di Genova con i paesi che affacciano sul bacino del Mediterraneo ma anche con quelli del retroterra sono caratterizzati da una continuità che non ha interruzioni neppure con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. La città portuale resta, infatti, sotto la dominazione dell’Impero Bizantino fino al 643, anno della conquista da parte di Rotari della Maritima Italorum e il suo porto serve da snodo ai prodotti che dall’area mediterranea devono raggiungere le regioni interne e viceversa. Purtroppo le tracce di questo periodo sono molto scarse e di difficile contestualizzazione, anche se le capacità marittime e commerciali della Superba sono attestate dal ricordo di alcune vicende quali il trasporto delle reliquie di Sant’Agostino dalla Sardegna, la morte del conte Ademaro in Corsica nell’806, combattendo contro gli Arabi, la presenza anche se sporadica di manufatti di chiara provenienza dal Nord Italia, Francia meridionale, Spagna, coste sud e est del Mediterraneo. Notizia oltremodo interessante, soprattutto in questo contesto, restano alcune lettere del re Teodorico scritte all’inizio del VI secolo (fra 507 e 511) nelle quali concede alla comunità ebraica genovese di restaurare la sinagoga ma senza aumentarne la volumetria. È evidente come questo documento, oltre ad attestare la presenza di un gruppo etnico di solito legato al mondo commerciale, testimoni l’esistenza di una comunità di religione diversa alla quale senza problema è concesso testimoniare il proprio credo, con una tolleranza che sarà poi tipica della città anche per altre confessioni, prima fra tutte quella islamica: in Età Moderna sono note già da tempo sinagoga e moschea.
Una situazione migliore sotto il profilo documentario, in senso lato, si ha a partire dal periodo ottoniano, quando l’interesse da parte della committenza imperiale per il mondo orientale va a coincidere con un aspetto già cosolidato, che lascia tracce molto più evidenti. Medesimo discorso va fatto per l’area continentale i cui contatti e apporti sono sempre considerevoli.
I secoli XI-XII sono quelli cruciali della formazione del Comune genovese e del suo sviluppo dal punto di vista urbanistico, culturale ed economico. Sono i tempi della formazione dell’identità della città che cambia definitivamente il proprio nome da Genua a Ianua, con tutte le implicazioni semantiche che conseguono e che è visualizzata concretamente nella costruzione delle mura del Barbarossa alla metà del XII secolo e nei versi dell’epigrafe posta in Porta Soprana, dove il nome ianua significa al tempo stesso “porta” e Genova. Ed è questa la vera vocazione della città e dei suoi cittadini, che questa vocazione mettono in pratica e la rendono possibile, una città che è porta e dove chiunque porti pace può giungere ed essere ben accolto e integrato – sono ancora i versi dell’epigrafe che ci informano di ciò – ma chi porta guerra da Genova sarà ricacciato e allontanato. Siamo alla metà del XII secolo, in quel periodo che molti – a torto – chiamano secoli bui, ma la dichiarazione che i Genovesi rendono nota a tutti tramite l’epigrafe è un bell’esempio di tolleranza e apertura verso i foresti senza distinzioni; questo è lo spirito – talvolta sì tra alti e bassi – che informa tutta la storia e la vita della città.
I rapporti e i contatti con terre straniere si vanno intensificando a partire dal XII secolo, anche se l’Oltremare resta un bacino di scambi privilegiato – anche per la ricchezza dei prodotti provenienti da lì –, questo diventa ancora più evidente con l’inizio dell’avventura crociata, che apre ai Genovesi la possibilità di impiantare numerose basi commerciali sull’altra sponda del Mediterraneo. Da questo momento in poi le fonti notarili informano in maniera puntuale dei contratti che interessano cittadini di differenti etnie e provenienza, talvolta vergati su fogli riciclati, dove campeggiano parole scritte in grafia araba (cartulare di Giovanni Scriba – 1154-1156 –).
Spesso portatori di nuove esperienze e influenze da luoghi lontani sono gli stessi prigionieri siano essi provenienti dalle altre sponde del Mediterraneo o da regioni più vicine come pisani e veneti, come nel caso di quel Marcus Venetus autore dei capitelli del chiostro di San Matteo – forse prigioniero dopo la battaglia di Chioggia –, o lo stesso Marco Polo che la tradizione vuole abbia dettato proprio nelle prigioni di palazzo San Giorgio, a un secodo prigioniero, questa volta pisano, Rustichello da Pisa Il Milione.
2. I Magistri Antelami – architetti foresti – e l’archittettura di una città di confine
2.1. Il Medioevo
L’immagine quale oggi è possibile leggere con più facilità nel tessuto urbanistico della città storica è sicuramente quello medievale e dell’Età successiva, mentre per i periodi precedenti le poche notizie sono fornite dagli scavi archeologici, che restituiscono, però, quasi esclusivamente dati a livello di traccia. Quello che emerge dall’analisi dell’elevato è la stretta connessione fra istanze autoctone e immisioni esterne, provenienti anche da luoghi lontani.
Per i primi secoli del Medioevo (V-IX secolo) a livello architettonico poco o nulla si può affermare, vista la scarsità di dati a disposizione. Resta, forse, traccia della dominazione bizantina nel termine hora, utilizzato ancora in pieno Medioevo, per indicare una ripartizione territoriale cittadina, che indicava una delle dodici sezioni nelle quali i Bizantini erano usi dividere le città.
In periodo ottoniano, quando l’interesse da parte della committenza imperiale per il mondo orientale – bizantino in particolare – si fa più marcato, questo lascia tracce anche a Genova. Mi riferisco ai manufatti scultorei che vanno a decorare molti degli edifici ecclesiastici presenti in città. Tanto per citarne qualcuno ricordo i capitelli del monastero di San Tommaso a Fassolo, la lastra con due leoni affrontati di San Lorenzo o quella con pavoni di San Siro.
Dal bacino del Mediterraneo si importano anche ceramiche pregiate già dalla metà dell’XI secolo che, oltre a impreziosire le mense, vengono utilizzate per la decorazione degli edifici di culto a Genova e nella Liguria di Ponente.
Intanto nell’architettura si fa strada la cultura lombarda – già l’antica cattedrale di San Siro (dedicata in origine ai XII Apostoli) aveva guardato a Milano per il suo primo impianto (VI secolo), i cui stilemi sono applicati dai noti Magistri Antelami, che, attestati dal XII secolo, ma sicuramente già attivi nella seconda metà dell’XI, e provenienti dalla valle d’Intelvi (Como) –, trovano a Genova un luogo ideale e fertile dove impiantare le proprie botteghe e dare vita a una delle corporazioni più importanti e protette nei secoli, tanto da detenere il monopolio delle costruzioni in città e nelle Riviere per secoli.
I rapporti con l’Oltremare si vanno intensificando a partire dal XII secolo, in particolare in concomitanza con l’avventura crociata, che apre ai Genovesi la possibilità di impiantare numerose basi commerciali sull’altra sponda del Mediterraneo.
A questi intensi traffici mercantili, che vedono l’importazione di prodotti anche pregiati, non corrisponde di fatto una massiccia immissione di modelli architettonici di gusto orientale.
I secoli XI-XII sono quelli cruciali della formazione del Comune genovese e del suo sviluppo dal punto di vista urbanistico, culturale ed economico. È il momento in cui la città inizia la trasformazione architettonica che prelude alla “città finita del ‘200”, secondo la felice definizione di Luciano Grossi Bianchi.
Le chiese si rinnovano proprio nel corso del XII secolo assumendo forme che guardano direttamente all’architettura lombarda, un territorio con cui Genova ha da sempre stretti legami, primo fra tutti la dipendenza dall’arcidiocesi milanese fino al 1133. La medesima matrice si ritrova anche nell’ambito scultoreo pervenuto. Le tracce della cultura precedente, che guarda contemporaneamente all’Oriente – Bisanzio – e già alla Lombardia, rimane documentata nei pezzi riutilizzati nelle nuove costruzioni.
Alla Francia e più esattamente alla regione provenzale guarda, invece, l’esito della torre nolare della chiesa di San Donato innalzata intorno al 1180, dove il saliente richiama quello della chiesa di saint Maximin a Aix-en-Provence (1160-1170).
L’altra componente di cui tenere conto è quella orientale, sicuramente meno evidente anche quantitativamente, ma che lascia esempi significativi nel complesso di San Giovanni di Prè – l’impianto generale dell’ospitale e delle chiese annesse – o nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano – le absidi immissae –.
In questo clima di rinnovamento e di contatti con il mondo esterno, soprattutto con l’Oltremare, invale l’abitudine fin dall’XI secolo di decorare le chiese con l’inserzione di bacini ceramici provenienti dal mondo islamico e bizantino. Questo materiale, che si trova in grandi quantità anche nelle discariche, è un prodotto molto pregiato e testimonia della ricchezza delle famiglie che tale prodotto importano e del loro tenore di vita. Le ceramiche che giungono a Genova in questo periodo arrivano sia dal Mediterraneo occidentale sia da quello orientale dimostrando quanto gli interessi commerciali della città marittima e delle famiglie che questi interessi rappresentano siano già molteplici e mirati in più direzioni.
In ambito civile le tracce “orientali” sono forse ancora più labili. Se si esclude quanto emerge dall’analisi dell’assetto urbanistico che – secondo quanto già sollevato da Luciano Grossi Bianchi ed Ennio Poleggi – vede in alcune scelte spaziali, un richiamo forse alle città orientali e nella fattispecie islamiche, per quanto concerne, ad esempio, la presenza di fondaci, serviti da vicoli ciechi, o l’uso di vie porticate, avvicinabili ai souk arabi, alcune considerazioni possono essere avanzate sull’utilizzo di appezzamenti in bugnato e/o sovradimensionati. Dall’Oriente ritorna, infatti, l’uso del bugnato e/o di conci sovradimensionati nelle strutture di difesa, quali le torri, così numerose in città – ne sono un chiaro esempio i salienti della curia degli Embriaci – e, forse, anche il gusto per la decorazione di archi e facciate nella tipica bicromia bianca e nera.
La grande fabbrica resta, comunque, quella di San Lorenzo, per la quale vengono chiamati dall’Ile de France i più aggiornati architetti nell’arte gotica. I tre portali della facciata ripropongono stilemi del gotico francese, con una policromia di marmi che guarda però all’Oriente o meglio al Mediterraneo tutto, così come alcune decorazioni, che sembrano copiate dai tessuti orientali giunti in grande quantità nel porto. Una menzione a parte merita l’uso cosciente e voluto, quasi fosse una citazione colta anche se irragiungibile a chi non ne è edotto, di un pezzetto di ceramica codiddetta di tipo mina’i (XII-XIII secolo), un prodotto giunto dalla lontana Persia, per la decorazione della corona recata da uno degli angeli nella lunetta del portale maggiore.
Al grande sviluppo economico del ‘300, corrisponde nel secolo successivo un rinnovamento dell’edilizia privata a cui dà una grossa spinta la formazione degli Alberghi.
Per ottenere dimore più ampie si procede con l’accorpamento di più unità abitative medievali, il portico esterno viene chiuso e si crea all’interno un cortile loggiato che ospita la scala; quella che resta invariata è la scansione verticale degli ambienti. Il clima di rinnovamento tocca anche la decorazione degli interni: i vani scala e gli atri divengono così i nuovi protagonisti con le pareti spesso ricoperte di piastrelle in maiolica dai vivaci colori e dai disegni geometrici, gli azulejios o laggioni, importati dalla Spagna o di produzione locale ma di chiaro gusto islamico.
Una città come Genova aperta agli scambi verso il bacino del Mediterraneo e le sue sponde orientali, ma in contemporanea fortemente ancorata all’Europa che è il naturale sbocco dei prodotti importati, denuncia nella sua architettura di attenersi con continuità ai modelli occidentali, siano essi lombardi o provenienti dall’oltralpe. Una città che non a caso porta nel proprio toponimo – Ianua – il significato di “porta”, nella sua duplice funzione di apertura verso il mare, ma anche verso l’entroterra. I temi orientali, che come si è visto sono presenti, sembrano innestarsi su questa cultura europea, tanto ben consolidata, da non venirne intaccata. Ma tuttavia persistono: sono come sorta di citazione e riferimento a un mondo per molti aspetti parte integrante della vita dei Genovesi e perfettamente amalgamati con la cultura continentale autoctona.
2.2. L’Età Moderna
3. Pittura, scultura e arti suntuarie: oggetti e artisti da terre lontane
3.1. Il Medioevo
Se sporadiche sono le notizie giunte fino a noi riferibili all’Altomedioevo; esse sono comunque sufficienti per delineare la presenza di un centro vitale, dove le tracce ancora rilevabili non mancano di segnalare apporti esterni diversificati per provenienza e contenuti. Tra i reperti più antichi restano un sarcofago e una lastra di pluteo: il sarcofago di Santa Marta con la sua decorazione geometrica che scaturisce dall’intreccio di due vimini, databile al VI – inizi VII secolo, è di cultura bizantina (Ravenna o Costantinopoli); la lastra di pluteo – oggi al museo di Sant’Agostino – con il grande Chrismòn centrale, databile al VI-VII secolo è anch’esso di produzione ravennate. La chiesa di Santa Maria di Castello conserva, invece, una lastra di pluteo con racemi e uva dell’VIII secolo eseguita probabilmenmte dalla cosiddetta Bottega delle Alpi Marittime, una maestranza che, fuggita dalla Penisola iberica all’arrivo degli Arabi (710), raggiunge il regno longobardo governato da Liutprando, lasciando numerose tracce lungo l’arco ligure di Ponente. I contatti con l’Oriente restano, però, i privilegiati e in particolare essi guardano all’Impero Bizantino. Da là giunge la lastra con pavoni – parte probabilmente di una iconostasi – proveniente dall’antica cattedrale di San Siro e datata alla seconda metà del X secolo; mentre per il monastero di San Tommaso si ipotizza addirittura l’arrivo di maestranze dalla capitale orientale, che lasciano una serie di capitelli a stampella (fine X secolo) oggi al museo di Sant’Agostino.
Sporadiche sono, invece, le tracce lasciate dall’XI secolo a causa dell’intensa attività architettonica e non, che attraverserà la città nel XII secolo. In questo periodo si legge in maniera più chiara l’intenso apporto, anche nel campo della scultura, della cultura lombarda, apporto che diverrà poi fondamentale per tutto il Medioevo centrale. I resti di sculture con leoni – una protome e una parte di stipite (XI-primissimi XII secolo) – provenienti dalla cattedrale protoromanica di San Lorenzo ne sono una testimonianza. Non manca, comunque, il gusto orientale, reso palese – sempre dalla cattedrale protoromanica di San Lorenzo – da due lastre in rilievo con motivo fitomorfo e leoni affrontati.
Le chiese si rinnovano proprio nel corso del XII secolo, assumendo forme che guardano direttamente all’architettura lombarda, un territorio con cui Genova ha da sempre stretti legami, primo fra tutti la dipendenza dall’arcidiocesi milanese fino al 1133. La medesima matrice – come si è visto – si ritrova anche nell’ambito scultoreo pervenuto. Le tracce della cultura precedente, che guarda contemporaneamente all’Oriente – Bisanzio – e già alla Lombardia, rimane documentata nei pezzi riutilizzati nelle nuove costruzioni.
È la fabbrica della cattedrale, in piena attività alla metà del XII secolo, che fornisce le tracce dell’apporto nel campo scultoreo delle maestranze toscane – portale di San Gottardo –, componente (soprattutto pisana) che rimarrà presente in parallelo con quella lombarda almeno per tutto il Medioevo e i cui esiti più importanti vedranno l’arrivo o la nascita di opere di Giovanni Pisano e Giovanni di Balduccio. Sempre nell’ambito della plastica, altra corrente protagonista nel realizzare le richieste della committenza, è quella dei maestri campionesi, i leoni stilofori del portale della chiesa di San Siro (ottavo decennio del XII secolo) – oggi al museo di Sant’Agostino – restano uno splendido esempio del periodo.
Nelle arti suntuarie la multietnicità è ancora più evidente, vista la quantità di oggetti che giungono in città da ogni luogo; le fonti scritte ne forniscono lunghi elenchi pur se le tracce materiali sono molto più scarse anche se significative. Dai territori crociati giungono numerose reliquie, oltre ai prodotti di lusso, quali croci con reliquie della Vera Croce – andate perse – e il Sacro Catino utilizzato da Cristo durante l’Ultima Cena – ritenuto a lungo di smeraldo ma in realtà di vetro: un prodotto che la critica riferisce alternativamente alla produzione romana di II secolo d.C. o a quella islamica di IX. L’arrivo delle ceneri di San Giovanni Battista a seguito della Prima Crociata determina da subito una forte devozione, ne è testimonianza l’urna detta del Barbarossa (1180 circa, fine XII-inizio XIII secolo, epoca postmedievale): un manufatto assegnabile probabilmente a un’officina locale, dove l’aurifaber racchiude in sé divrse culture – bizantina, franco-mosana, tedesca e locale – oppure dove lavorano diverse personalità di estrazione culturale differente, questo per l’impianto generale del manufatto e la maggior parte delle placche.
Questa duplicità di interessi culturali verso il continente – Italia ed Europa – e l’Oltremare è esplicita nelle scelte della committenza nel campo delle arti figurative – scultura e pittura –, ben documentata almeno dal XIII e XIV secolo. Giungono in città, chiamati dalle famiglie aristocratiche o dal Comune pittori e scultori provenienti dalla Toscana, dall’Emilia, ma anche da Bisanzio – per esempio per affrescare la cattedrale –. I pittori chiamati a decorare le dimore private e le chiese si chiamano Manfredino da Pistoia, Maestro di Santa Maria di Castello, Il Maestro del Giudizio, e poi Barnaba da Modena, il senese Taddeo di Bartolo, i pisani Giovanni da Pisa e Turino Vanni, portatori tutti delle esperienze più aggiornate nel loro campo e che fanno da ponte fra queste esperienze e gli artisti locali. Stesso discorso vale per il campo scultoreo, dove la compagine toscana e lombarda è ancora ben nutrita: da Pisa giungono i due artisti che progettano e realizzano il sepolcro del cardinale Luca Fieschi morto nel 1336; questi creano il più grandioso, complesso e articolato monumento funebre del Trecento genovese, dopo l’opera di Giovanni Pisano per l’imperatrice Margherita. Scultori foresti che forniscono alle maestranze locali basi solide su cui appoggiarsi e da cui partire per realizzare in maniera originale i loro manufatti per una committenza comunque esigente e usa a rivolgersi, come si è visto, anche al di fuori dell’ambito autoctono. Su questa tradizione lascia strascichi importanti anche l’esperienza per la decorazione della facciata della cattedrale alle soglie del Duecento, i cui plasticatori sono da rintracciare, se non nello stesso Benedetto Antelami – il dibattito sulla sua paternità è ancora del tutto aperto –, sicuramente nelle maestranze del suo enturage. Se l’Antelami ha avuto contatti con Genova, questi sono probabilmente avvenuti durante il suo passaggio nel viaggio verso la Francia.
I maestri duecenteschi recano nei loro dipinti gli echi lontani, ma non troppo, della cultura bizantina, così familiare nella città marinara, basti pensare che intorno al 1312 per la decorazione del duomo è chiamato proprio un pittore costantinopolitano, il Maestro costantinopolitano di San Salvatore in Chora. Altre tracce si travano nell’edificio più orientale costruito a Genova: San Giovanni di Prè, dove, come per il duomo, tornano i temi del Giudizio Universale. Simbolo di Genova, il grifone, che deve essere collocato in cattedrale, ha come artefice magister Oberto (1226), portatore della grande arte bronzistica araba. Andato disrtutto nell’incendio del 1297 e rifatto identico ma in marmo dal Maestro di Giano, impegnato con la sua bottega nella nuova decorazione della chiesa fra 1307 e 1312.
Sempre dal contesto della capitale bizantina, ma forse per altre vie, giunge a Genova un pezzo di grande fascino: il tondo marmoreo con Cristo benedicente proveniente dalla chiesa di San Colombano oggi al museo di Sant’Agostino. L’autore è quasi sicuramente un artista orientale, forse arrivato in Occidente – a Pisa o nella stessa Genova – a seguito della quarta Crociata (1204).
Porto o meglio porta sul Mediterraneo, dove sbarcano e imbarcano le merci più varie e pregiate di cui i Genovesi sono spesso fruitori: stoffe, cibi, spezie e oggetti di varia provenienza e uso, tra cui anche i trofei. Quest’ultimi sono esposti nei luoghi deputati del potere laico ed ecclesiastico, talvolta fonte di ispirazione per gli artisti, sicuramente esempi della presenza genovese in Europa, nel Mediterraneo e ovunque i traffici li conducano. Santa Maria di Castello conserva murate in chiesa due epigrafi in caratteri cufici, forse dell’XI secolo; palazzo San Giorgio presenta due protomi leonine provenienti dal palazzo veneziano di Costantinopoli; dopo la presa della città arabo-ispanica di Almeria (1147) giungono due porte bronzee collocate in San Giorgio e un grande lampadario per la cappella di San Giovanni Battista.
Non si contano, poi, i doni fatti al Comune o più spesso alla cattedrale, che vanno ad arricchirne i tesori. Nel 1261 l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, dona alla città, o meglio alla cattedrale, un pallio in ossequio alle clausole del trattato del Ninfeo, con il quale i Genovesi rientrano a Costantinopoli dopo che hanno aiutato i Paleologi a riprendere il potere, perso a seguito della Quarta Crociata nel 1204. Si tratta di un panno serico di manifattura imperiale con scene dedicate ai Santi Lorenzo, Sisto e Ippolito, oggi conservato nei Musei di Strada Nuova. Un dono – questa volta di un privato cittadino, anche se doge, Leonardo Montaldo (morto nel 1384) – alla chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, come recitava il suo testamento, è anche l’icona del Santo Volto di Edessa. Un oggetto pluristratificato composto da più manufatti – le stoffe, l’icona su legno, la cornice paleologa argentea, quelle di XVII e XVIII secolo – che abbracciano un arco temporale che va dal X al XVIII secolo, un arco geografico che partendo idealmente da Gerusalemme tocca Edessa, Costantinopoli per approdare a Genova, caricato di plurimi significati, soprattutto sacrali.
Il Mediterraneo, con la perdita da parte della città di quasi la totalità delle colonie e al caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, non è più il centro degli interessi e dei traffici genovesi, che guardano ormai all’Europa e all’Atlantico: sono sempre più numerosi gli arrivi di opere d’arte di gusto nordico, mentre si affievolisce, senza svanire completamente, l’interesse verso il mondo orientale.
Un’immissione di oggetti provenienti dall’Oriente e più precisamente da Costantinopoli, che vanno ad arricchire le chiese Genovesi ma anche le dimore, è il frutto della necessità di portare in salvo questi oggetti dopo la caduta della capitale bizantina e il conseguente esodo da Pera – un quartiere della città stessa – dei Genovesi là residenti. Gli inventari ricordano soprattuttutto icone – quella di Nostra Signora del Monte o quella oggi ai Musei di Strada Nuova – e oggetti legati all’uso liturgico, che non vengono però donati nella speranza quasi certa che l’allontanamento sia solo temporaneo.
Commistioni fra Nord e Sud, ne è un esempio il cosiddetto piatto del Battista, un’opera di epoca romana per quanto riguarda il contenitore in calcedonio e proveniente probabilmente dall’Oriente, decorata fra 1420 e 1430 da un orafo parigino con una incastonatura in smalti completata da una piccola testa del Precursore, sempre in smalto.
Dall’Inghilterra – con la quale i rapporti affondano le proprie radici nel pieno Medioevo, legati come sono al commercio di panni di lana – sembrano, invece, giungere alcuni pezzi in alabastro – museo di Sant’Agostino – decorati con La Sinagoga, La Chiesa Cattolica, La Madonna della Misericordia, La Cocifissione attribuibili al primo quarto del XV secolo, un’importazione precoce se si pensa che le prime notizie dell’arrivo di questi oggetti nella nostra penisola sono del 1382.
E sempre legato al commercio, in particolare quello delle stoffe, è l’arrivo in città di Giusto da Ravensburg, al quale il convento domenicano di Santa Maria di Castello, in piena attività di rinnovamento, affida nel 1451 la decorazione ad affresco della loggia al primo piano del secondo chiostro. Il pittore ha lasciato una delle più suggestive Annunciazioni presenti nel capoluogo, così pervasa di gusto nordico e citazioni mediterranee: le piastrelle in ceramica del pavimento, la brocca in maiolica bianca e blu, l’asciugamano in macramè.
È il preludio alla grande fortuna della pittura fiamminga nella nostra città che vedrà tra i protagonisti seicenteschi pittori del calibro di Pier Paolo Rubens, Antonio Van Dick, i fratelli De Wael.
4. Economia
5. Genovese: lingua di marinai, mercanti, foresti
5.1. Gli arabismi
I contatti con il mondo vicinorientale e nordafricano sono attestati fin dal sorgere della potenza araba, in realtà non si erano mai fermati neppure con il dissolversi dell’Impero Romano. Le tappe del rinsaldarsi dei legami con queste terre governate dai seguaci di Maometto sono caratterizzate in un primo momento soprattutto dagli scontri, per esempio il lungo contrasto con i Saraceni stanziati a Frassineto. Per i secoli successivi si hanno notizie certe della presenza, non solo a Genova, di Arabi e Levantini con intenti pacifici. Secondo gli studiosi, però, non è tanto attraverso loro che nella parlata genovese compaioni termini di chiara derivazione araba, ma dal contributo dei nostri mercanti e navigatori, peraltro spesso a conoscenza delle lingue orientali – arabo e greco –, che frequentano quei luoghi lontani, dove almeno dall’XI e XII secolo sono fiorenti molte colonie e punti di scambio. Naturalmente la maggior parte dei prestiti interessano il mondo della navigazione, del commercio e dei prodotti importati, ma non mancano riferimenti più generali come cabbàn – cappotto –, dall’arabo qabâ – mantello –, oppure u gipunettu – panciotto –, dall’arabo giubba – casacca –.
Se ci si addentra nel mondo mercantile – come già ricordato – le attestazioni si fanno più numerose: u zerbin – zerbino –, dal nome dell’isola di Gerba (Tunisia) da cui il prodotto proveniva, darsena, da dâr-sinâ – casa delle costruzioni –, dugan-a – dogana –, da dîwan – cortile porticato sotto il quale spesso sono rogati atti da parte dei notai, famoso quello di Acri, luogo di dogana ma anche di incontro e sosta per i mercanti; un viaggiatore arabo medievale ricorda che “gli scribi del dîwan, che sono cristiani, hanno calamai di ebano dorati e ben ornati e fanno le loro scritturazioni in arabo, lingua che parlano egualmente” –, gabèlla, da qabâla, tara, da tarah – detrazione –, camallu, da hammâl – facchino –, o ancora caravan-a – compagnia di trasporto –, da karawân – carovana –. Ci sono poi i prodotti che da quei luoghi giungono: cutùn – cotone –, da qutun, carrubba – carruba –, da kharrûb.
In questo florilegio di derivazioni non mancano neppure i riferimenti al cibo: zemìn – umido di magro –, da sâmin – burro fuso –, musciamme – filetto di tonno salato ed essicato –, da musciamma’ – essicato –.
Alcune parole ricalcano quasi perfettamente la forma araba: cuffa – grande cesta –, da quffa, tassa – tazza –, da tâsa.
Ad attestare la lunga e intensa frequentazione con questo mondo ci sono i numerosi cognomi, sulla cui origine sembrano non essere dubbi: Caffaro, da kâfir – infedele –, Marabotto, da marbût – eremita –, Aschéri/o, da ‘askarî – soldato –, Buzzoni, da abû-sciâmah – dal grosso neo –.
“Insomma” – citando Lorenzo Coveri e Renzo Olivieri – “ce n’è a bezeffe (bizzâf – molto–), parola di gabibbu (hhabîb – amico –)”.
6. Tradizioni
7. Cucina
Vai alle schede:
architettura arte cucina dialetto
economia storia toponomastica tradizioni
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Naser Eslami A., Genova e il Mediterraneo. I riflessi d’oltremare sulla cultura artistica e l’architettura dello spazio urbano (XII-XVII secolo), Genova 2000;
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Tessuti, oreficerie, miniature in Liguria (XIII-XV secolo), Atti del Convegno internazionale di Studi (Genova, Bordighera, 22-25 maggio 1997), a cura di A.R. Calderoni Masetti, C. Di Fabio, M. Marcenaro, Bordighera 1999
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